Michele Tetro continua l'appassionante cavalcata nel mito dell'OKCorral al cinema
Dopo “Law and Order” di Edward L. Cahn, 1932, “Frontier Marshall” di Lewis Seiler, 1934, “Gli indomabili” di Allan Dwan, 1939, e “Tombstone – The Town Too Tough to Die” di Richard Dix, 1942, che per primi portarono sul grande schermo la storia di Wyatt Earp, John Ford dirige nel 1946 “Sfida infernale” (“My Darling Clementine”), un film che indubbiamente costituirà la quintessenza del western classico, il perfetto modello di quella mitologia dell’Ovest che forse in realtà mai fu ma che ha contribuito a fondare l’etica americana. Lo stesso Wyatt Earp aveva fornito, prima di morire, la traccia del film agli sceneggiatori Sam Engel e Winston Miller (che si ispirarono anche alla biografia di Stuart Lake), e John Ford aveva più volte sentito dalle sue labbra dell’ex sceriffo la storia della sparatoria all’OK Corral: curioso quindi che il film sia uno tra i meno accurati storicamente, a partire dalla data in cui si svolge (1882, un anno dopo gli eventi originali), continuando con il numero dei morti prima e durante lo scontro (ben nove, tra cui quattro fratelli Clanton, loro padre, Virgil e James Earp e addirittura “Doc” Holliday) e finendo con gestione dei personaggi completamente inventata (Earp e Holliday si conobbero nel 1877, a Fort Griffin, Texas, e diventarono inseparabili giocatori d’azzardo fin da allora mentre nel film si incontrano per la prima volta a Tombstone, dove il tubercolotico Holliday spadroneggia senza ritegno e deve essere messo al suo posto da Wyatt).
Ma Ford aveva intenzione di girare un western dichiaratamente “mitico”, dove i buoni sono davvero buoni e i cattivi indubitabilmente cattivi (i Clanton, ladri di bestiame, assassini senza scrupoli, uccidono a sangue freddo il più giovane dei fratelli Earp, James, e sparano alla schiena di Virgil), dove l’arrivo dei mandriani Earp, assolutamente integerrimi, in una città in preda all’anarchia costituisce un po’ la metafora della civilizzazione del pioniere, che mantiene la sua correttezza morale accettando il ruolo di sceriffo in virtù di un senso di giustizia senza macchia alcuna. E non poteva che essere Henry Fonda ad interpretare il ruolo di questo Wyatt incorruttibile ed onesto, legatissimo alla famiglia e foggiato in uno stampo dove si sono fuse tutte le migliori caratteristiche del Sogno Americano (Wyatt addirittura rifiuta di intrattenersi con la donna che ama, l’insegnante Clementina, già ex di Holliday, perché spinto dal dovere filiale di tornare dal padre per raccontare della morte di James e Virgil), assolutamente alieno da qualsiasi interesse personale riguardante il gioco d’azzardo, la politica, la gestione delle prostitute del saloon, il controllo della città di Tombstone, la sete di vendetta (che invece pare proprio caratterizzassero il vero Wyatt Earp).
Il Wyatt di Ford concede la vita a Pa’ Clanton (vera mente di tutte le nequizie del clan, figura che non apparirà più in nessun altra riduzione cinematografica, qui mirabilmente reso da Walter Brennan), dopo che questi ha perso tutti e quattro i figli, anche se un suo ultimo gesto inconsulto gli frutta una pallottola fatale da parte di Morgan. Non gli è da meno Victor Mature nel ruolo di “Doc”, il perdente che trova la propria redenzione col sacrifico finale nella sparatoria. Ford si concede digressioni sugli affetti familiari e personali dei suoi eroi (l’amore tra Wyatt e la maestria, quello tra Holliday e la prostituta Chiuahua, invaghitasi di Wyatt, i legami tra fratelli, sia buoni che cattivi), concedendo che il melodramma si affianchi alla tragedia, senza dimenticare alcuni gustosi siparietti comici, come le disavventure di Wyatt dal barbiere o i suoi equilibrismi sulla sedia sotto il patio.
Ford celebra il mito dell’uomo onesto che lotta per la giustizia e il progresso, inteso come trapasso da un’età selvaggia e brutale ad una retta da leggi giuste e per ciò evita accuratamente un vero raffronto con la storia, scrivendo un’indimenticabile pagina di western quasi favolistica, essenziale, romantica, lirica, senza chiaroscuri. Uno scontro tra famiglie, l’una legata ad un mondo violento che stava per scomparire (i Clanton, in questa versione, sono gli unici avversari degli Earp), l’altra proiettata già in quello futuro. La sparatoria all’OK Corral sarà programmaticamente replicata (sana invenzione) nella maggior parte delle successive trasposizioni: un luogo (meglio dire: non-luogo) aperto, a contatto con cielo e deserto, pieno di carri, trincee, rifugi, steccati adatti per lo scontro, lungo e movimentato, un piccolo campo di battaglia al posto del reale spazio chiuso in centro cittadino. Molte le sequenze da ricordare, dall’apertura in piena Monument Valley con l’incontro tra i due clan antagonisti al primo approccio dei fratelli Earp con la “civiltà” di Tombstone, dal monologo di Wyatt sulla tomba nel deserto di James al primo incontro con un borioso Holliday, dalla danza sotto la chiesa in costruzione alla vana operazione chirurgica senza anestesia di Chiuahua, colpita a morte da Bill Clanton. E, ovviamente, la celebre canzone “My Darling Clementine”… Per molti questo rimarrà il più bel adattamento della sfida all’OK Corral, per quanto privo di veri legami col dato storico.
Il Wyatt di Ford concede la vita a Pa’ Clanton (vera mente di tutte le nequizie del clan, figura che non apparirà più in nessun altra riduzione cinematografica, qui mirabilmente reso da Walter Brennan), dopo che questi ha perso tutti e quattro i figli, anche se un suo ultimo gesto inconsulto gli frutta una pallottola fatale da parte di Morgan. Non gli è da meno Victor Mature nel ruolo di “Doc”, il perdente che trova la propria redenzione col sacrifico finale nella sparatoria. Ford si concede digressioni sugli affetti familiari e personali dei suoi eroi (l’amore tra Wyatt e la maestria, quello tra Holliday e la prostituta Chiuahua, invaghitasi di Wyatt, i legami tra fratelli, sia buoni che cattivi), concedendo che il melodramma si affianchi alla tragedia, senza dimenticare alcuni gustosi siparietti comici, come le disavventure di Wyatt dal barbiere o i suoi equilibrismi sulla sedia sotto il patio.
Ford celebra il mito dell’uomo onesto che lotta per la giustizia e il progresso, inteso come trapasso da un’età selvaggia e brutale ad una retta da leggi giuste e per ciò evita accuratamente un vero raffronto con la storia, scrivendo un’indimenticabile pagina di western quasi favolistica, essenziale, romantica, lirica, senza chiaroscuri. Uno scontro tra famiglie, l’una legata ad un mondo violento che stava per scomparire (i Clanton, in questa versione, sono gli unici avversari degli Earp), l’altra proiettata già in quello futuro. La sparatoria all’OK Corral sarà programmaticamente replicata (sana invenzione) nella maggior parte delle successive trasposizioni: un luogo (meglio dire: non-luogo) aperto, a contatto con cielo e deserto, pieno di carri, trincee, rifugi, steccati adatti per lo scontro, lungo e movimentato, un piccolo campo di battaglia al posto del reale spazio chiuso in centro cittadino. Molte le sequenze da ricordare, dall’apertura in piena Monument Valley con l’incontro tra i due clan antagonisti al primo approccio dei fratelli Earp con la “civiltà” di Tombstone, dal monologo di Wyatt sulla tomba nel deserto di James al primo incontro con un borioso Holliday, dalla danza sotto la chiesa in costruzione alla vana operazione chirurgica senza anestesia di Chiuahua, colpita a morte da Bill Clanton. E, ovviamente, la celebre canzone “My Darling Clementine”… Per molti questo rimarrà il più bel adattamento della sfida all’OK Corral, per quanto privo di veri legami col dato storico.