lunedì 27 maggio 2013

E ALLA FINE VENNE TARANTINO (la T è muta)


Arriva come un colpo al cuore (quello definitivo!) il refrain  di ‘Lo chiamavano Trinità’ sulle ultime immagini di Django Unchained. I giochi sono fatti, le colt hanno cantato ed è stato, ovviamente, ‘Tempo di Massacro’. Ma quel ritornello, quella musica ci portano a tempi ed eroi lontani, momenti in cui il cinema d’intrattenimento italiano camminava a testa alta. È vero che con Trinità la stagione degli  spaghetti-western volgeva al termine virando al ridicolo ma la sua bella forza l’aveva ancora. Quella di saper raccontare, di portarci tutti in un mondo che avevamo conosciuto sin da ragazzi, che era una leggenda e che noi, creatori italiani, avevamo rifatto a nostro uso  e consumo, al cinema e nei fumetti. Come osavamo noi ‘dagos’ rifare uno dei pilastri del cinema americano, una leggenda della loro storia riempiendola di sesso, di sangue, di violenza e musiche che non avevano nulla dell’originale? Eppure era stato così. Il west alla fine degli anni 50 come genere cinematografico americano era morto, ridotto a uno spettacolo per bambini dalle serie tv. Rinacque quando Sergio Leone e un manipolo (che poi diventò una legione) lo ripresero, lo rifecero dei deserti dell’Almeria, nelle montagne dell’Abruzzo. Any Gun Can Play,  dice il titolo di un bellissimo saggio sul western ‘europeo’ di Kevin Grant, disponibile anche in Italia in originale. Tutti potevano provarci. Alcuni bene, altri un po’ meno. Ma il western rinacque in America grazie alla sua versione spaghetti . Perché dico questo parlando del film di Tarantino? Perché non voglio raccontarvi la storia che è lì tutta da vedere, nei suoi tempi lunghi perché il west esige tempi lunghi che diano il passo alle stagioni, al mutare dei caratteri, al senso di rivalsa che diventa odio e poi, magicamente giustizia e riscatto. Perché il west non vive di ritmi da video clip, vive di lunga cavalcate fordiane(c’è una scena invernale in particolare che è perfetta). Cosa rimane del Django di Corbucci alla fine? Franco Nero in un cameo e , forse, gli incappucciati razzisti. Poi Tarantino gira il west a modo suo citando a piene mani ma tirando fuori una storia originale e, per una volta, non siamo costretti a sorbirci la solita storia di piccoli allevatori contro grandi allevatori. C’è la blaxploitation, ci sono le pallottole, le piantagioni del sud, i bounty killer persino Mandingo citato non solo a parole. E poi cento visi che hanno fatto la leggenda del cinema d’azione non solo  western. James Remar, Don Johnson, Don Stroud, James & Michael  Parks, Tom Savini, Lee Horsley, Bruce Dern, Robert Carradine, Walton Goggins e lo stesso Tarantino. Visi che l’appassionato ricorda e non solo nei western ma in quel meraviglioso mondo che è stato l’avventura cinematografica e televisiva. Forse non tutte le armi sono congrue con l’epoca ma che importa, neanche la strana pistola che El Tuco assemblava ne ‘Il buono, il brutto e il cattivo’ lo era. Conta l’amicizia virile, quella che sembra uscita da  ‘Faccia a faccia’, conta  la vendetta, la musica, il décor, i volti e le situazioni che ammiccano al ‘Grande Silenzio’ e a mille altri film ma che, ancora una volta, sono gloriosamente originali. La storia è quasi più lineare e ritmata di ‘Inglorius Basterds’. Una vicenda di sangue, di cavalli, di sudore e polvere da sparo. Un cinema fatto di battute lapidarie che citano se stesse, di musiche e immagini. Con tre straordinari interpreti principali(quattro con Samuel L. Jackson!) e un palcoscenico di facce di contorno che le rendono ancora più interessanti. È il cinema. È il West. È la libertà di raccontare sparando un colpo al  chi crede che, grazie alla crisi, si possa tirare il collo agli autori. A chi crede che uomini, schiavi e padroni si qualifichino per il ceto e il colore della pelle. Invece è sempre e solo questione di cuore. E di piombo.