Arriva come un colpo al cuore (quello
definitivo!) il refrain di ‘Lo
chiamavano Trinità’ sulle ultime immagini di Django Unchained. I giochi sono
fatti, le colt hanno cantato ed è stato, ovviamente, ‘Tempo di Massacro’. Ma
quel ritornello, quella musica ci portano a tempi ed eroi lontani, momenti in
cui il cinema d’intrattenimento italiano camminava a testa alta. È vero che con
Trinità la stagione degli
spaghetti-western volgeva al termine virando al ridicolo ma la sua bella
forza l’aveva ancora. Quella di saper raccontare, di portarci tutti in un mondo
che avevamo conosciuto sin da ragazzi, che era una leggenda e che noi, creatori
italiani, avevamo rifatto a nostro uso e
consumo, al cinema e nei fumetti. Come osavamo noi ‘dagos’ rifare uno dei
pilastri del cinema americano, una leggenda della loro storia riempiendola di
sesso, di sangue, di violenza e musiche che non avevano nulla dell’originale?
Eppure era stato così. Il west alla fine degli anni 50 come genere
cinematografico americano era morto, ridotto a uno spettacolo per bambini dalle
serie tv. Rinacque quando Sergio Leone e un manipolo (che poi diventò una
legione) lo ripresero, lo rifecero dei deserti dell’Almeria, nelle montagne
dell’Abruzzo. Any Gun Can Play, dice il
titolo di un bellissimo saggio sul western ‘europeo’ di Kevin Grant,
disponibile anche in Italia in originale. Tutti potevano provarci. Alcuni bene,
altri un po’ meno. Ma il western rinacque in America grazie alla sua versione
spaghetti . Perché dico questo parlando del film di Tarantino? Perché non
voglio raccontarvi la storia che è lì tutta da vedere, nei suoi tempi lunghi
perché il west esige tempi lunghi che diano il passo alle stagioni, al mutare
dei caratteri, al senso di rivalsa che diventa odio e poi, magicamente
giustizia e riscatto. Perché il west non vive di ritmi da video clip, vive di
lunga cavalcate fordiane(c’è una scena invernale in particolare che è
perfetta). Cosa rimane del Django di Corbucci alla fine? Franco Nero in un
cameo e , forse, gli incappucciati razzisti. Poi Tarantino gira il west a modo
suo citando a piene mani ma tirando fuori una storia originale e, per una
volta, non siamo costretti a sorbirci la solita storia di piccoli allevatori
contro grandi allevatori. C’è la blaxploitation, ci sono le pallottole, le
piantagioni del sud, i bounty killer persino Mandingo citato non solo a parole.
E poi cento visi che hanno fatto la leggenda del cinema d’azione non solo western. James Remar, Don Johnson, Don
Stroud, James & Michael Parks, Tom
Savini, Lee Horsley, Bruce Dern, Robert Carradine, Walton Goggins e lo stesso
Tarantino. Visi che l’appassionato ricorda e non solo nei western ma in quel
meraviglioso mondo che è stato l’avventura cinematografica e televisiva. Forse
non tutte le armi sono congrue con l’epoca ma che importa, neanche la strana
pistola che El Tuco assemblava ne ‘Il buono, il brutto e il cattivo’ lo era.
Conta l’amicizia virile, quella che sembra uscita da ‘Faccia a faccia’, conta la vendetta, la musica, il décor, i volti e
le situazioni che ammiccano al ‘Grande Silenzio’ e a mille altri film ma che,
ancora una volta, sono gloriosamente originali. La storia è quasi più lineare e
ritmata di ‘Inglorius Basterds’. Una vicenda di sangue, di cavalli, di sudore e
polvere da sparo. Un cinema fatto di battute lapidarie che citano se stesse, di
musiche e immagini. Con tre straordinari interpreti principali(quattro con
Samuel L. Jackson!) e un palcoscenico di facce di contorno che le rendono
ancora più interessanti. È il cinema. È il West. È la libertà di raccontare sparando
un colpo al chi crede che, grazie alla
crisi, si possa tirare il collo agli autori. A chi crede che uomini, schiavi e
padroni si qualifichino per il ceto e il colore della pelle. Invece è sempre e
solo questione di cuore. E di piombo.