Avevamo promesso il West.. e il West è Action... così, in attesa di parlare diffusamente del film di Tarantino, scopriamo il western orientale
Takashi Mike, regista prolificissimo e variegato nell’ispirazione, pulp a volte sino all’estremo e ingiustamente snobbato da chi considera il cinema giapponese obbligatoriamente una raccolta di immagini statiche e iconografiche, diresse pungolato dall’amico Tarantino un film atipico nel 2007.
Sukiyaki Western Django è, in realtà, molto più citazionista e complesso del recente film di Tarantino, al quale è comunque riservato un ruolo di cantastorie che deve averlo divertito moltissimo(di chiama Ringo e veste come Eastwood ma, nel proseguio della storia appare come il classico vecchio della montagna giapponese padre di un bimbetto che ha chiamato Akira perché ‘Sono sempre stato un otaku!’). Questo film è riproposto oggi in versione di lusso con più di un’ora di contenuti extra.
Prodotto non per tutti, giacché unisce allo stile di Mike un citazionismo esasperato (qui sì …altro che nel film di Tarantino che è una pellicola per tutti) che richiede conoscenze approfondite della storia giapponese, del suo cinema pulp e, ovviamente, una grande passione per il western all’italiana. Tutto con visi orientali sconosciuti ai più.
In una sontuosa cornice autunnale dai colori saturi Mike crea un meta universo fine ottocentesco che mescola l’iconografia western italiana(cappottoni, colt, mitragliatrici, villaggi spazzati dal vento, ballerine in bustino) a quella del chanbara (magnifica la scena in cui il capo del clan bianco dei Genji ferma un colpo di katana con il palmo delle mani, dimostrazione tipica dello stile kyokushinkai di karate). Intrecci di vendette, con flashback dai colori saturati, personaggi buffi e grotteschi(lo sceriffo dalla doppia personalità, i proiettili che aprono buchi attraverso cui è possibile vedere nei corpi dei morti) tutto per dirci che western e racconti samurai hanno una radice comune. Lo sapevamo ma riproposta con tale abilità la manovra riesce.
Sukiyaki Western Django evoca i western ambientati in oriente della Nikkatsu girati negli anni 70 ma anche un universo favoloso, creato dalla fantasia degli appassionati in cui davvero si affrontano spada e katana, come in Sole Rosso. Qui viene riproposta in un villaggio in stile western nel quale affiorano costruzioni e interni tipicamente nipponici, la guerra del Genpei (1180-1185) trai clan Minamoto e Taira come fu rivisitata nell’Heike Monogatari, romanzo classico del quale non sfuggono le somiglianze con la Guerra delle Rose inglesi (non per nulla oggetto di citazione). I bianchi e i rossi, un tesoro nascosto, una donna guerriera, un bambino e una vendetta. Aggiungete il pistolero misterioso e senza nome che arriva e distrugge i due clan e avrete un mix tra Eastwood e Corbucci, tra Leone e Kurosawa, tra Fukusaku e Castellari.
Mike attinge a piene mani dall’immaginario del western all’italiana sia nella dinamica dei personaggi che nell’azione. C’è la cassa da morto con la mitragliatrice, ma anche la corazza che preserva dalle pallottole, la Derringer nascosta nella manica, il vento, la pistolera giapponese e persino un duello sotto la neve che non può non ricordare il grande silenzio. Eppure tutto è condotto in modo originale, nipponico più che occidentale, stupefacente e gradevolissimo anche per chi non si ferma alle sollecitazioni ottiche.
L’idea della vecchia guaritrice del popolo degli Anasazi (tribù indiana scomparsa nel New Mexico misteriosamente) da sola vale tutto il film. Come la scritta finale sul piccolo Akira, superstite del massacro finale e ormai padrone del tesoro e della pistola: "molti anni dopo emigrò in Italia e si fece un nome come Django". Da vedere assolutamente abbinato al film di Tarantino per coglierne le differenze. Oppure anche così, perché è uno spettacolo con i fiocchi che un po’,come sempre, ci ricorda che il cinema italiano d’intrattenimento è morto e sepolto ma, come uno zombie, dovrebbe tornare a vivere.