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domenica 30 giugno 2013

MITI DE WEST: IL DOTTORE CON LA DOPPIETTA


Michele Tetro prosegue nella cavalcata di sangue all’OK Corral con uno dei migliori film del filone.
Frank Perry dirige nel 1971 il western incentrato sul personaggio di Doc Holliday più revisionista tra tutti quelli finora apparsi sul grande schermo. Come “L’ora delle pistole” non ebbe un grande successo, anzi lasciò il suo pubblico con l’amaro in bocca, dato che la riscrittura degli eroi di un tempo è pressoché totale e antipodica a quella offerta in origine dal grande John Ford. 
Spariti completamente il romanticismo, l’aura mitica, addirittura l’ambiguità delle proposte più recenti… “Doc” è un plumbeo ritratto di un Wyatt Earp viscido, intrigante, intrallazzatore, odioso, interessato solo a fare soldi a Tombstone e a tentare l’arrampicata politica. Quasi privo di veri sentimenti positivi, con neppure troppo velate inclinazioni omosessuali verso l’amico Holliday, questo Wyatt nutre rancore e pulsioni vendicative verso Ike Clanton ed i suoi, a seguito di un episodio incentrato su una rapina ad una diligenza che vide entrambi più o meno coinvolti, spingendosi addirittura ad ordine lo scontro finale all’OK Corral come una trappola ai danni dei Clanton, inferiori come volume di fuoco di fronte alla carica degli Earp (pistole contro fucili), avente come conseguenza una vera e propria strage (sette i caduti in questa versione, compreso Morgan Earp). Anche l’attore che lo interpreta, Harris Yulin, è anni luce lontano dall’iconografia che ci saremmo aspettati anche nella più divergente delle “metamorfosi”. Ma “Doc” è un film incentrato principalmente su John Holliday, sul suo rapporto con la prostituta Kate “Big Nose” Elder (Faye Dunaway), comprata proprio dai Clanton alla faccia della veridicità storica, e sulla relazione con l’antico amico Wyatt Earp, di cui non condivide più intenzioni, comportamenti e tendenze.
Stacy Keach interpreta un Holliday minato dalla tisi, stanco della violenza e desideroso solo di un po’ di pace, costretto suo malgrado da Wyatt Earp a partecipare alla sparatoria all’OK Corral, nonostante percepisca nell’amico il passaggio da una posizione ossequiosa della legge ad una semplicemente opportunistica e senza scrupoli, tale da far quasi passare i Clanton per innocenti destinati al massacro. E non equilibra la situazione il “pistolotto” finale di Earp sul corpo del fratello morto, alludente alla nascita di una nuova Tombstone più giusta e civile: per Doc è il segnale di dover abbandonare per sempre l’ex amico e il suo universo corrotto.
Revisionista all’estremo, al punto di diventare ancor più incredibile delle versioni classiche che vorrebbe mettere alla berlina (anche la sparatoria finale perde ogni suo connotato di realtà), “Doc” non ottiene successo di pubblico. Stranamente, c’è da dire, poiché in molti vi hanno scorto tra le righe, e neanche tanto, una evidente metafora della guerra in Vietnam, con gli Earp nel ruolo degli Stati Uniti e i Clanton in quello dei Vietcong, in un periodo in cui tra i giovani erano molto di moda film che si opponevano all’intervento nel Sud-Est asiatico. Ma molto probabilmente le cause del flop sono da imputarsi principalmente in un disegno dei personaggi principali davvero troppo alieno alla tradizione… e anche ai successivi tentativi di riproposta più aderenti alla realtà. Più che antiwestern, “Doc” è un film anti Earp e paga il fio di infangare quella che, nonostante tutto, restava una figura mitica della storia americana.


martedì 25 giugno 2013

ARTI MARZIALI: ADDIO A LIU CHIA LIANG


Licius Estruscus nostro collaboratore, fedelissimo delle arti marziali e del cinema che le riguarda ricorda così il grande maestro d’armi scomparso oggi


Questo è un omaggio triste, di quelli che non si vorrebbe mai scrivere: è il ricordo di un uomo che fu maestro in vita e che, deceduto lo scorso 25 giugno, è ora leggenda.

Gli occidentali piuttosto che Lau Kar Leung hanno spesso preferito chiamarlo Liu Chia-liang, ma in Occidente è arrivato tardi e al di là di un ristretto numero di intenditori non ha mai goduto della fama che invece avrebbe meritato. Molto più famoso sicuramente è sempre stato suo fratello adottivo ed allievo, noto come Gordon Liu: su di lui Liu ha costruito quel capolavoro senza tempo che è La 36ª camera dello Shaolin (1978), che da solo ha smontato e ricostruito un intero genere. Ma sbaglieremmo a pensare che Liu Chia-liang fosse solo un ottimo ed ispirato regista - cosa che comunque fu. Egli è stato la linfa vitale del cinema di Hong Kong, che oggi quindi perde una delle sue colonne portanti.

Aveva 14 anni quando iniziò a lavorare nel cinema, da sempre una delle più prolifiche e remunerative attività di Hong Kong - fra quelle legali! - e al di là di qualche ruolo da comparsa fu subito chiaro il settore in cui Liu eccelleva: l’azione. Per dieci anni il giovane Liu ricoprì una delle mansioni più difficili in quel tipo di cinema: lo stunt coordinator. Continuerà a farlo per il resto della sua vita, ma dopo quei primi dieci anni di gavetta finalmente Liu poté passare anche al livello successivo: attore sì, una mansione sicuramente più remunerativa, ma divenne anche qualcosa che ad Hong Kong ha sempre significato moltissimo. Divenne fight choreographer, o fight instructor che dir si voglia.

Ideare e realizzare combattimenti di arti marziali in un Paese in cui la stragrande maggioranza della popolazione le studia quasi quotidianamente, non è assolutamente facile. Farlo per gli Shaw Brothers, che notoriamente consumavano i propri lavoratori mantenendoli spesso in semi-schiavitù, non è di sicuro facile. Rimanere a galla circondato da una concorrenza spietata e da un esercito di nuove leve che vuole emergere, ancora una volta non è facile. Ma è di questo che è fatta la leggenda: perseveranza e abnegazione. E, sicuramente, una gran dose di talento.

Del fiume di film in cui Liu Chia-liang ha creato coreografie marziali, molto più importanti di quelli in cui ha semplicemente recitato, l’Occidente ne ha conosciuto una sventagliata: l’Italia giusto una pallida ombra. In un periodo in cui le grandi produzioni di qualità venivano distribuite a stretto contatto con i sottoprodotti peggiori, da noi non si fece in tempo a creare il gusto per saper riconoscere la mano del maestro. E quando Sammo Hung lo omaggiò con un combattimento epocale in Pedicab Driver (1989) così come fece Jackie Chan in Drunken Master 2 (1994), ormai la distribuzione aveva chiuso i rubinetti e questo tipo di film non arrivavano più in Italia.

In tempi più recenti la AVO Film ha comprato una piccola parte del catalogo Celestial Pictures, quindi ora si possono gustare molti film con Liu Chia-liang in varie vesti, rimasterizzati e riportati agli antichi fasti. Scelgo di ricordare il maestro di Hong Kong con uno dei suoi film forse meno noti, rispetto ai grandi capolavori della Shaolin Chamber, ma in cui ha potuto dare libero sfogo alla sua creatività, essendone regista, attore e coreografo. Sto parlando di Mad Monkey Kung Fu (da non confondersi con il coevo Monkey Kung Fu), arrivato nel 2010 anche nelle nostre edicole grazie alla collana di DVD Bruce Lee e il grande cinema delle arti marziali. Qui Liu può lanciarsi nelle sue istrioniche acrobazie e dar prova della sua talentuosa marzialità, divertirsi a prendere in giro i canoni del genere e a dimostrare con il sorriso sulle labbra che si può essere leggenda anche imitando le movenze di una scimmia.

Riposa nel Paradiso dei Draghi, maestro Liu.

domenica 23 giugno 2013

SHIRREFFS: LO SCORRIDORE DEL WEST



Di romanzi sul West se ne possono citare a migliaia. Negli anni ’70, quando il genere era ancora vivo grazie alla spinta che gli aveva impresso il revival extraviolento di Sam Peckinpah e alle derive politicamente orientate di pellicole come Soldato Blu e Piccolo grande uomo, nelle edicole italiana si trovavano ancora numerose collane dedicate al genere. Longanesi che nel decennio precedente aveva ospitato nella collana Suspense alcuni romanzi western anche se vi metteva  copertine ammiccanti al noir , proponeva una collana rimasta nel cuore dei collezionisti. I Grandi Western. Romanzi di autori pulp, con belle cover disegnate e immagini cinematografiche che spesso nulla avevano a che fare con il romanzo ma efficaci. Fu proprio tra queste collane che scoprii alcuni dei miei western preferiti. Ne avevo letti in precedenza ma in collane dedicate  ai ragazzi. I romanzi di Zane Grey e di altri, in edizioni illustrate. Alcuni anche molto belli ma per me non esattamente soddisfacenti. Erano romanzi che riproponevano il western americano anni ‘50, con galanti cow boy, cattivi banditi, indiani impennacchiati e una visione manichea e consolatoria del West. Certo, visto che il genere era imperante nelle produzioni per ragazzi , divoravo di tutto ma già il cinema e i fumetti proponevano altro. Storie più adulte  in cui sesso, violenza, una cura peri particolari e una notevole ambiguità sulle ragioni della conquista del West non potevano  non lasciare traccia nella mia immaginazione. Se in Italia Tex restava il termine di paragone più noto, le mie frequentazioni del fumetto francese mi avevano fatto conoscere un west più vicino al mio immaginario. Blueberry, Comanche, quelli mi piacevano davvero.  E così, quasi per caso acquistai una raccolta di romanzi di Gordon D. Shirrefs nella collana i Grandi Western. Capii dalle prime pagine di avere tra le mani storie adulte, intriganti. Vicende di cavalleggeri che parlavano di onore e amore ma anche di violenza, di vendetta, di sesso e crudeltà. Poi c’era una grandissima capacità di rendere il Sudovest americano, la vita dei forti, la ferocia degli Apaches. Shirrefs (1914-1996) cominciò a scrivere negli anni ‘50 produsse per il cinema (Rio Bravo fu appunto tratto da uno dei suoi romanzi ma sceneggiò moltissimo anche Gunsmoke, lo sceriffo di Dodge City). Più di ottanta romanzi solo per il ciclo del west. Moltissime storie di cavalleria, ricche di dettagli e di intrecci complessi ma anche vicende di pistoleri e banditi. Ho riletto recentemente con grande piacere Le fanfare della vendetta che fu il suo primo romanzo che  trovai. Ancora oggi le descrizioni sono accurate ben rese (purtroppo la collana fu chiusa e passò per un certo periodo a un altro editore che evidentemente non era in grado di selezionare i traduttori, alcuni romanzi dell’epoca dello stesso autore risultano quasi illeggibili malgrado le belle copertine di Ticci) molto cinematografiche. Ed è proprio questo romanzo che voglio proporvi, una storia che si prende parecchie licenze sulla vera vicenda della guerra con gli Apaches. Poco importa, la banda del Carnicero e il suo misterioso uomo della medicina, il Profeta, del capitano Holt Downey che cerca a tutti i costi la vendetta anche a costo di travolgere durante una carica il figlio del suo odioso superiore è ancora appassionante. Ci sono sergenti disposti a fare a pugni coi superiori se questi rinunciano ai privilegi del grado, scout ubriaconi o infidi, fanciulle dell’Est e ragazze facili dell’ovest, agguati, inseguimenti e un catartico finale. Tutto in meno di duecento pagine condotte con senso del ritmo e dell’avventura. Davvero un peccato che anche negli Usa questa produzione sia ormai scomparsa. Restano solo gli ultimi romanzi di Robert B. Parker (dei quali il primo, Appaloosa, è stato portato sullo schermo) ma son cose differenti. È finita, per il momento, l’epoca del western narrato sulla pagina. Per chi volesse ritrovare questa magia consiglio una ricerca nei mercatini e nelle bancarelle oppure su internet, in inglese gran parte dei romanzi di Shirrefs sono ancora disponibili.

lunedì 17 giugno 2013

BELGIO IL REGNO DEL FUMETTO: LA MOSTRA



La mostra “Belgio, il Regno del Fumetto” suggella l’importante gemellaggio tra WOW Spazio Fumetto – Museo del Fumetto, dell’Illustrazione e dell’Immagine animata di Milano e il Centre Belge de la Bande Dessinée di Bruxelles, due importanti istituzioni europee che sorgono in due capitali del fumetto mondiale e che per la prima volta si stringono la mano testimoniando una collaborazione che non mancherà di dare ottimi frutti! La mostra è organizzata con la collaborazione di Turismo Fiandre, Bruxelles, Belgio, ente per la promozione del turismo delle Fiandre. 

Famoso per la cioccolata, la birra e la genialità dei suoi pittori, dai raffinati Fiamminghi all’estroso Magritte, il Belgio detiene un primato assai curioso ignoto ai più: con una superficie pari a un decimo di quella italiana è il paese con la più alta densità di fumettisti per chilometro quadrato! Ciò non deve stupire se pensiamo che in questo piccolo regno europeo sono nati e hanno operato alcuni tra i più i più grandi fumettisti del panorama internazionale, creatori di personaggi immortali su testate di gra/nde avanguardia: da Lucky Luke ai Puffi, da Tintin a Buck Danny, da Barbarossa a Spirou e Fantasio, da Blueberry a Luc Orient e Blake e Mortimer, solo per citarne alcuni. La mostra “Belgio, il Regno del Fumetto” ci racconta tutto questo attraverso un percorso cronologico che parte dalla rivista Le petit Vingtième, sulle cui pagine nel 1929 nasce Tintin, il simpatico e intrepido ragazzino fotoreporter dal ciuffo rosso che gira il mondo alla ricerca di avventure con la sua macchina fotografica e il cagnolino Milou, personaggio tra i più amati e longevi della storia del fumetto ultimamente portato con successo sul grande schermo da Spielberg.



Un regno incontrastato fino al 1938, quando nasce Spirou, simpatico facchino biondo anch'esso giramondo e avventuriero. Ai due personaggi vengono dedicate le più importanti riviste a fumetti del Paese, sempre in competizione per lanciare nuovi personaggi e autori come Peyo (nome d’arte di Pierre Culliford), lo storico creatore dei Puffi. 
Un fermento culturale in cui vengono alla luce personaggi come i detective dell'impossibile Blake e Mortimer (1946) di Edgar P. Jacobs, il redattore combinaguai Gaston Lagaffe (1957) e il simpatico animaletto maculato Marsupilami (1952) di André Franquin, gli aviatori Buck Danny (1947) e Dan Cooper (1954), nati uno in concorrenza all'altro sulle due riviste Tintin e Spirou, il cagnone Cubitus (1968) e molti altri. 


 

Tra tutti spiccano di certo per fama e notorietà il cowboy Lucky Luke (1946), ideato da Morris e scritto da grandi autori come René Goscinny (lo stesso di Asterix) e il romanziere Daniel Pennac, e i Puffi, gli omini blu di Peyo che, introdotti come comprimari in una storia di Rolando e Pirulì nel 1958, diventano i personaggi belgi più celebri del mondo, protagonisti di film e serie animate. Tra le chicche esposte in mostra alcuni disegni originali della serie animata dei Puffi firmati Hanna & Barbera.
Non esiste un genere predominante nel fumetto belga: la ricchezza di autori ha permesso di creare storie di pirati (Barbarossa, 1959), cavalieri (Il Cavaliere Ardente, 1966), cowboy (Blueberry, 1963), spie (XIII, 1984), birrai (I maestri dell'orzo, 1992), e perfino tassisti (Strapuntino, 1958) e agenti del fisco (IR$, 1999). E anche in Belgio rifulge l'eccellenza italiana con Dino Attanasio, autore italiano naturalizzato belga, creatore del Signor Spaghetti (1957), pubblicato a lungo su Tintin.
Questo straordinario percorso viene illustrato dalla mostra grazie all’esposizione di tavole originali, pubblicazioni d’epoca, francobolli, figurine, pupazzi, gadgets, edizioni belghe e italiane e video.  Grazie alla collaborazione tra WOW Spazio Fumetto di Milano e Centre Belge de la Bande Dessinée di Bruxelles saranno esposte tavole originali di importanti autori.

sabato 15 giugno 2013

MITI DEL WEST: L'ORA DELLE PISTOLE



Michele Tetro continua la sua ideale cavalcata tra i film dedicati alla sfida all’OK Corral questa volta ci parla di "L'ora delle pistole" ancora di John Sturges.

Dopo dieci anni dalla realizzazione di “Sfida all’OK Corral”, nel 1967 il regista John Sturges torna ad occuparsi dello storico evento tombstoniano del 26 ottobre 1881, lasciato ancora nella sua aura mitica, dove i completamente buoni fratelli Earp, aiutati da Doc Holliday, sgominarono i cattivi fratelli Clanton-McLowery. Erano già fioccate sul precedente film numerose accuse di falso storico e di varie inaccuratezze che evidentemente indussero Sturges a riprendere la storia là ove si era conclusa per narrare tutto ciò che seguì la sparatoria, con occhio più attento alla gestione dei personaggi e al loro ritratto psicologico… ma ancora una volta, nonostante i flani dei cartelloni affermassero il contrario, ben poco aderente alla realtà dei fatti.

 “L’ora delle pistole” (“The Hour of the Gun”, noto in Italia con il titolo alternativo di “Vendetta all’OK Corral”) appare più come uno studio, anche piuttosto malinconico e decisamente crepuscolare, di personaggi che un western all-action. Lodevole iniziativa, che si apre con la migliore delle previsioni: la sfida all’OK Corral riproposta in modo molto aderente al vero, con una fedele rapidità di esecuzione e il giusto numero di vittime a terra. Certo, al posto del monolitico Burt Lancaster nel ruolo di Wyatt Earp abbiamo un altrettanto granitico James Garner, baffuto al punto giusto (l’attore riprenderà ancora la parte di Earp in “Intrigo a Hollywood”, commedia ambientata negli anni Venti), e in quello di Doc Holliday troviamo un forse troppo anziano Jason Robards, ma l’alchimia di coppia sembra funzionare bene anche in questo caso. Il film narra come, dopo il fallimentare processo intentato da Ike Clanton, che in questa riduzione cinematografica sopravvive, come era giusto che fosse, alla sparatoria e vuole gli Earp condannati come assassini, Wyatt e i suoi fratelli, assolti in tribunale, siano presi di mira dagli sgherri del feroce landlord, ben interpretato da Robert Ryan (anche se questa versione di Clanton in veste di business-man dalle mille strategie di vendetta poco si raccorda col vero Ike, che era più un rozzo mandriano e ladro di bestiame).

Con Virgil storpiato a vita e Morgan fatto fuori con un colpo alle spalle, Wyatt abbandona la sua cieca fede nella giustizia per lasciarsi trasportare da un freddo istinto di feroce vendetta, un’ossessione di morte che lo spinge a mettere insieme una banda di fedelissimi alla ricerca degli assassini dei fratelli, giustiziati tutti senza pietà. E’ la storica Earp Vendetta Ride, che Sturges adatta non troppo fedelmente, sottolineando come sia la “posse” di Earp che quella di Clanton agissero nel rispetto delle leggi di stati differenti (Arizona e New Mexico) ma spingendo marcatamente sulla progressiva perdita di integrità di Wyatt, sulla disintegrazione dell’uomo di legge a favore del killer giustiziere. Ed è l’alcolizzato Holliday, stavolta, a cercare di riportare l’amico nei ranghi, diffidandolo dal comportarsi come in realtà si sarebbe comportato lui stesso. Siamo già deragliati molto dalla realtà dei fatti e Wyatt porterà a termine la sua crociata uccidendo Clanton in uno scontro a fuoco finale (quando invece il vero Ike non avrà più a che fare con gli Earp fino alla sua morte, avvenuta anni dopo durante una rapina).

La pellicola è uno degli adattamenti meno noti dei fatti riguardanti Wyatt Earp e ciò è tanto più strano considerando che oggi è rivalutata come opera forse addirittura migliore dell’illustre predecessore (a detta di molti sopravvalutato), sia per quanto concerne l’interpretazione che il risultato complessivo, fatta salva, ovviamente, l’inattendibilità storica che presto prende il sopravvento. L’atmosfera generale è cupa, gli eroi non sono più eroi, non c’è spazio alcuno per vicende sentimentali e men che meno per donne in qualsiasi ruolo, vera protagonista del film è quell’ambiguità non risolta tra confini della legge ben marcati e libero arbitrio personale, tra figure un tempo eroiche ed ora mutate nella sembianza di coloro contro i quali agivano spinti da un incontrovertibile senso di giustizia. In quest’accezione, “L’ora delle pistole” assurge a pellicola davvero emblematica del western crepuscolare… al pari della seguente “Doc”.

venerdì 14 giugno 2013

MITI DEL WEST: SFIDA ALL'OK CORRAL



Continua il viaggio di Michele Tetro alla scoperta dei mitici western: questa volta tocca alla prim rivisitazione di Sturges

John Sturges, regista molto attivo nei western (“I magnifici sette”, “La carovana dell’alleluja”, “Joe Kidd”) e abile artigiano, gira “Sfida all’OK Corral” (“Gunfight at the OK Corral”), remake di “Sfida infernale”, nel 1957, affidando i ruoli di Wyatt Earp e “Doc” Holliday a due star come Burt Lancaster e Kirk Douglas, che sono l’asso nella manica di un classico film western in cui tutto funziona correttamente ma che non ha ambizioni di fregiarsi come capolavoro del genere.

Sturges ricorre ancora una volta ad una versione molto romanzata della vicenda, che evita accuratamente di addentrarsi in una ricerca storica ufficiale e mette invece in scena un western appartenente ancora alla sfera “mitica” e con una manichea suddivisione tra buoni (Earp) e cattivi (Clanton). Andando al di là del fordiano conflitto tra famiglie e del trapasso da un’epoca senza leggi ad una più basata sulle regole del vivere civile, Sturges gioca sul rapporto tra Wyatt e “Doc”, sorvolando alquanto sui rapporti familiari dei protagonisti per incentrare l’attenzione sul vincolo di “difficile” amicizia tra i due, uomo di legge tutto di un pezzo e giocatore d’azzardo attaccabrighe, diversissimi tra loro ma uniti da un indissolubile legame dovuto al reciproco salvataggio della vita. La “presenza” attoriale della coppia Lancaster-Douglas consente di sorvolare su un approfondito scavo psicologico dei due, che si risolve più nell’azione e nella peculiare recitazione dei due divi, controllato e monolitico Lancaster, frenetico e febbrile Douglas.


Sempre in rilievo le relazioni amorose, con la presenza della giocatrice professionista Laura Denbow (Rhonda Fleming) e della sanguigna prostituta Kate Fisher (Jo Van Fleet) e una squadra di fuorilegge che finalmente vede lo scettro di leader passare ad Ike Clanton, alleato con Tom McClowery (il reale Tom McLaury). La ricostruzione della lunga sparatoria finale avviene come da tradizione in un vasto corral aperto, in periferia cittadina, dotato di trincee, carri, stamberghe e stalle, in cui le due fazioni possono movimentare uno scontro fatto di inseguimenti, tranelli e duelli singoli.

Quattro sceriffi contro sei malviventi stavolta, a differenza del film di Ford (cinque contro quattro), e a terra resteranno ovviamente tutti e sei i “cattivi”. Tra loro anche Johnny Ringo, cugino di Cole Younger della banda di Jesse James, che nel film aveva un conto aperto con “Doc”, avendolo insultato e portatosi via Kate (in realtà Ringo non partecipò alla sparatoria ma fu comunque affiliato con Ike Clanton e venne inseguito dagli Earp durante le tre settimane di “vendetta” personale del 1882. Il suo corpo fu ritrovato senza vita e con un foro di proiettile in testa: non è ancora chiaro se si sia trattato di suicidio o di esecuzione operata da Wyatt Earp o “Doc” Holliday). Insomma, nella sparatoria di Sturges c’è un minimo di fedeltà in più rispetto alla pellicola di Ford, con la presenza di ulteriori personaggi legati all’evento. Il film è spettacolare, con qualche lungaggine, un buon uso di caratteristi western e stereotipi del genere, una indimenticabile canzone scritta da Dimitri Tiomkin e cantata da Frankie Laine. L’interpretazione di Lancaster e Douglas, entrambi al meglio delle loro capacità, è elemento trainante della pellicola, forse anche perché i due divi facevano a gara nel tentativo di essere l’uno migliore dell’altro.

Siamo comunque ancora molto lontani dalla pretesa di raccontare i veri motivi legati al celebre fatto di sangue di Tombstone, che verranno meglio sviscerati alla fine degli anni Sessanta con una sorta di sequel sempre diretto da John Sturges, “L’ora delle pistole-Vendetta all’OK Corral” e con il successivo “Doc”, di Frank Perry.


giovedì 13 giugno 2013

MARTIN MYSTERE: ARCHEOLOGIA WEB


Il prossimo 12 giugno sarà in edicola l'albo numero 327 di Martin Mystère. Gli abitatori del sottosuolo
scritto da Paolo Morales (soggetto e sceneggiatura) e disegnato da Roberto Cardinale e Alfredo Orlandi ha la copertina di Giancarlo Alessandrini.

Ecco come viene presentato sul sito Bonelli: un’incredibile realtà si manifesta durante le riprese di una trasmissione televisiva in Africa: l’esistenza di una tribù di umanoidi spaventosamente feroci. Le loro caratteristiche fisiche lasciano intendere che gli esseri siano nati e cresciuti nell’oscurità, lontani dalla luce e dal calore del sole. Da dove vengono? Qual è la loro origine? Martin Mystère è tra i pochi a conoscere la verità: li ha già incontrati in precedenza, e sa che non si tratta di mostri. Inizia così un’indagine che porterà il Detective dell’Impossibile a percorrere una lunga pista sulle orme dei “nati nelle tenebre”…

Qui sotto il video, recuperato dalla Rete del primo servizio dedicato nel 1982 al nuovo "fumetto" in edicola.

lunedì 10 giugno 2013

DRAGONERO: FANTASY MADE IN BONELLI


Dall'11 giugno 2013 arriva in edicola la prima serie fantasy di Sergio Bonelli Editore: Dragonero!
Ideata da Luca Enoch e Stefano Vietti, la collana vi porterà ogni mese a seguire le vicende di Ian Aranill, conosciuto come Dragonero, e della sua compagnia, impegnati nel mantenere l'ordine nelle terre dell'Erondàr!

Questo è il blog della serie

Cliccate qui per vedere il comicsbooktrailer

Vi piace questa immagine? è di Luca Malisan , uno dei disegnatori della serie.
Qui sotto c'è il viedo realizzato durante la sua realizzazione.

domenica 9 giugno 2013

MARTIAL WESTERN



Lucius Etruscus nostro storico collaboratore ci propone una carrellata dei principali Western…di argomento marziale

«I cinesi del “kung-fu” sono approdati a Roma» così esordiva una notizia dell’Ansa del 25 luglio 1973: che ci facevano questi cinesi nella Capitale? «Hanno deciso di girare nel nostro paese alcuni film del filone di Hong Kong con salti, capriole e manate micidiali come polpi d’ascia». I giornalisti nostrani erano costretti ad occuparsi di qualcosa che loro consideravano un abominio, e lo spiegavano ripetutamente in tutti i quotidiani e riviste, ma che non potevano ignorare perché il successo di quei “filmacci” aveva infiammato tutti gli italiani. Invece i giornalisti ignoravano che i “cinesi del kung-fu” non erano sbarcati a Roma per propria scelta: erano stati ingaggiati da una produzione italiana per girare un film italiano.

Ma che c’entrano gli italiani con il cinema di kung-fu? Malgrado oggi sia dimenticato, fra il 1968 e il 1975 è esistito un genere che alcuni chiamano “kung fu western” altri “soja western”, ma visto che è stato in tutto e per tutto un fenomeno creato dagli italiani, ho ribattezzato “spaghetti marziali”. Prima che Bruce Lee fosse conosciuto nel nostro Paese, prima che il primo film di arti marziali si affacciasse al nostro orizzonte, prima ancora che David Carradine si presentasse con il suo Kung Fu nel Far West, gli italiani ebbero il coraggio di andare là dove nessun cineasta era mai stato primaAprile 1968, gli spettatori in sala stanno assistendo ad un classico “spaghetti western”, "Oggi a me... domani a te!", diretto da Tonino Cervi e sceneggiato da un giovane Dario Argento. Siamo al finale, quando il buono si scontra con il cattivo. Il buono tira fuori una pistola ma... che succede? Il cattivo non solo è giapponese, ma estrae addirittura una katana! Una spada giapponese in uno “spaghetti western”? Gli spettatori sono allibiti: chissà quanti di loro hanno colto la citazione al contrario de "La sfida del samurai", il celebre film di Kurosawa in cui il buono con la katana affronta il cattivo con la pistola. Il dado è tratto e non si può più tornare indietro. Inizia una serie di piccoli film dimenticati in cui registi italiani si rifanno ai miti del chanbara giapponese - che in fondo è la versione nipponica del western. L’unico film che rimane famoso di questo periodo è "Sole Rosso", co-produzione italo-franco-spagnola che si rifà in buona parte all’italianissimo "Silent Stranger" (non è purtroppo possibile risalire con sicurezza al titolo italiano con cui uscì in sala questo film). Dopo essersi divertiti a fondere giapponesi e western, gli italiani nel 1973 scoprirono qualcosa di grandioso: il cinema di Hong Kong in cui gli attori si pestavano a mani nude. L’esplosione nelle sale italiane fa capire ai produttori che bisogna ora andare per quella via, e addirittura ingaggiano nel nostro Paese un bravo attore come Lo Lieh. Prima ancora che Bruce Lee arrivi in Italia, Lo Lieh è il simbolo del kung-fu e viene gettato in pellicole come "Là dove non batte il sole", affiancato da un altro simbolo immortale come Lee Van Cleef. Mentre nasce il mito "Il mio nome è Shanghai Joe" - un autentico culto all’estero ma pressoché dimenticato in Italia - ci si rende conto che questo è anche il periodo del western comico, dalla coppia Spencer-Hill al Provvidenza di Milian: quindi il genere “spaghetti western” si ammanta anche di scene forse non molto umoristiche ma considerate comiche all’epoca. Proprio una di queste pellicole, nel gennaio 1975, sembra chiudere idealmente questo esperimento italiano: "Il bianco, il giallo, il nero". Un trittico di attori amati dal pubblico - Giuliano Gemma, Eli Wallach e Tomas Milian - accompagna al tramonto il genere “spaghetti western”, e noi lo salutiamo rifacendoci ad una delle battute del personaggio interpretato da Milian in questo film, quando tenta il suicidio: «Qui finisce l’avventura del samurai Sakura».

Per saperne di più, per un viaggio più completo nel sorprendente mondo degli “spaghetti marziali”, vi invito a scaricare gratuitamente il mio saggio breve in eBook: http://luciusetruscus.altervista.org/spaghetti/spaghetti.htm




POESIA è AZIONE: D'ANNUNZIO IN MOSTRA


Allo Spazio Excalibur di Vigevano si è appena conclusa la mostra EROI DIVI E GUERRIERI dedicata al maestro dell'illustrazione di avventura Carlo Jacono che subito viene inaugurata una nuova mostra dedicata all'icona dell'azione: Gabriele D'annunzio. Il Poeta Soldato che ha fatto dell'Azione Poesia. D'ANNUNZIO, LA DUSE E LE ALTRE presenta trenta opere originali realizzate per celebrare Gabriele D'Annunzio a 150 anni dalla nascita. 


Una donna, Anna Pennati, ci racconta il D'Annunzio poeta, oratore, guerriero, politico, amante attraverso le sue donne. Quelle realmente esistite e quelle che popolano i suoi poemi immortali.


La mostra accanto alle opere di Anna Pennati presenta immagini e video per raccontare le mille facce di D'Annunzio.  “Io sono camaleontico, chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l'unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia legge è in una parola: NUNC. Sia fatta la volontà della legge”.

Cliccate qui e godetevi il ComicBooktrailer de IL FOLLE VOLO - D’Annunzio e l’incredibile impresa sui cieli di Vienna di Fabrizio Capigatti e Samuela Cerquetella

venerdì 7 giugno 2013

MITI DEL WEST: SFIDA INFERNALE

Michele Tetro continua l'appassionante cavalcata nel mito dell'OKCorral al cinema


Dopo “Law and Order” di Edward L. Cahn, 1932, “Frontier Marshall” di Lewis Seiler, 1934, “Gli indomabili” di Allan Dwan, 1939, e “Tombstone – The Town Too Tough to Die” di Richard Dix, 1942, che per primi portarono sul grande schermo la storia di Wyatt Earp, John Ford dirige nel 1946 “Sfida infernale” (“My Darling Clementine”), un film che indubbiamente costituirà la quintessenza del western classico, il perfetto modello di quella mitologia dell’Ovest che forse in realtà mai fu ma che ha contribuito a fondare l’etica americana. Lo stesso Wyatt Earp aveva fornito, prima di morire, la traccia del film agli sceneggiatori Sam Engel e Winston Miller (che si ispirarono anche alla biografia di Stuart Lake), e John Ford aveva più volte sentito dalle sue labbra dell’ex sceriffo la storia della sparatoria all’OK Corral: curioso quindi che il film sia uno tra i meno accurati storicamente, a partire dalla data in cui si svolge (1882, un anno dopo gli eventi originali), continuando con il numero dei morti prima e durante lo scontro (ben nove, tra cui quattro fratelli Clanton, loro padre, Virgil e James Earp e addirittura “Doc” Holliday) e finendo con gestione dei personaggi completamente inventata (Earp e Holliday si conobbero nel 1877, a Fort Griffin, Texas, e diventarono inseparabili giocatori d’azzardo fin da allora mentre nel film si incontrano per la prima volta a Tombstone, dove il tubercolotico Holliday spadroneggia senza ritegno e deve essere messo al suo posto da Wyatt).




Ma Ford aveva intenzione di girare un western dichiaratamente “mitico”, dove i buoni sono davvero buoni e i cattivi indubitabilmente cattivi (i Clanton, ladri di bestiame, assassini senza scrupoli, uccidono a sangue freddo il più giovane dei fratelli Earp, James, e sparano alla schiena di Virgil), dove l’arrivo dei mandriani Earp, assolutamente integerrimi, in una città in preda all’anarchia costituisce un po’ la metafora della civilizzazione del pioniere, che mantiene la sua correttezza morale accettando il ruolo di sceriffo in virtù di un senso di giustizia senza macchia alcuna. E non poteva che essere Henry Fonda ad interpretare il ruolo di questo Wyatt incorruttibile ed onesto, legatissimo alla famiglia e foggiato in uno stampo dove si sono fuse tutte le migliori caratteristiche del Sogno Americano (Wyatt addirittura rifiuta di intrattenersi con la donna che ama, l’insegnante Clementina, già ex di Holliday, perché spinto dal dovere filiale di tornare dal padre per raccontare della morte di James e Virgil), assolutamente alieno da qualsiasi interesse personale riguardante il gioco d’azzardo, la politica, la gestione delle prostitute del saloon, il controllo della città di Tombstone, la sete di vendetta (che invece pare proprio caratterizzassero il vero Wyatt Earp).
Il Wyatt di Ford concede la vita a Pa’ Clanton (vera mente di tutte le nequizie del clan, figura che non apparirà più in nessun altra riduzione cinematografica, qui mirabilmente reso da Walter Brennan), dopo che questi ha perso tutti e quattro i figli, anche se un suo ultimo gesto inconsulto gli frutta una pallottola fatale da parte di Morgan. Non gli è da meno Victor Mature nel ruolo di “Doc”, il perdente che trova la propria redenzione col sacrifico finale nella sparatoria. Ford si concede digressioni sugli affetti familiari e personali dei suoi eroi (l’amore tra Wyatt e la maestria, quello tra Holliday e la prostituta Chiuahua, invaghitasi di Wyatt, i legami tra fratelli, sia buoni che cattivi), concedendo che il melodramma si affianchi alla tragedia, senza dimenticare alcuni gustosi siparietti comici, come le disavventure di Wyatt dal barbiere o i suoi equilibrismi sulla sedia sotto il patio.

Ford celebra il mito dell’uomo onesto che lotta per la giustizia e il progresso, inteso come trapasso da un’età selvaggia e brutale ad una retta da leggi giuste e per ciò evita accuratamente un vero raffronto con la storia, scrivendo un’indimenticabile pagina di western quasi favolistica, essenziale, romantica, lirica, senza chiaroscuri. Uno scontro tra famiglie, l’una legata ad un mondo violento che stava per scomparire (i Clanton, in questa versione, sono gli unici avversari degli Earp), l’altra proiettata già in quello futuro. La sparatoria all’OK Corral sarà programmaticamente replicata (sana invenzione) nella maggior parte delle successive trasposizioni: un luogo (meglio dire: non-luogo) aperto, a contatto con cielo e deserto, pieno di carri, trincee, rifugi, steccati adatti per lo scontro, lungo e movimentato, un piccolo campo di battaglia al posto del reale spazio chiuso in centro cittadino. Molte le sequenze da ricordare, dall’apertura in piena Monument Valley con l’incontro tra i due clan antagonisti al primo approccio dei fratelli Earp con la “civiltà” di Tombstone, dal monologo di Wyatt sulla tomba nel deserto di James al primo incontro con un borioso Holliday, dalla danza sotto la chiesa in costruzione alla vana operazione chirurgica senza anestesia di Chiuahua, colpita a morte da Bill Clanton. E, ovviamente, la celebre canzone “My Darling Clementine”… Per molti questo rimarrà il più bel adattamento della sfida all’OK Corral, per quanto privo di veri legami col dato storico. 

DAN BROWN: CHI VENDE HA SEMPRE RAGIONE?


Diciamoci la verità: è sempre più difficile trovare qualcuno tra i lettori di lungo corso che sia disposto a professarsi un estimatore di Dan Brown, almeno in pubblico. Non che la critica ufficiale si sforzi molto per modificare la situazione: anche quando vogliono (o devono…) fargli un complimento, non possono evitare di iniettare un po’ di veleno. Per esempio, il Daily Mail ha sentenziato che si tratta di “un cumulo di sciocchezze, ma non si può fare a meno di continuare  a leggerlo”. Molti, invece, ci sono andati giù duro: “Il peggior libro di Dan Brown”, ha tuonato un altro critico inglese; più spiritoso Jake Kerridge, del Daily Telegraph,  secondo il quale lo stile di Brown “continua a migliorare: dove prima era terribile, adesso è solamente molto povero.”



Il “tiro all’autore”, in casi come questi, è fin troppo facile: le aspettative generate dalla macchina promozionale, i riferimenti culturali elevati (Dante, ovviamente, ma anche il reiterato riferimento al patrimonio artistico italiano),  l’introduzione di un tema sociale sentito e spinoso (quello della sovrappopolazione)…  sono tutte manifestazioni del più classico peccato di hubris letteraria, un atto di superbia che deve essere punito. E naturalmente, chi meglio di un critico letterario o di un lettore navigato (che, quindi, non può certo rimanere abbacinato da situazioni e stratagemmi narrativi che ha già letto e riletto) per somministrare il giusto castigo, sotto forma di critica puntuta e sferzante?
Paradossalmente, però, dovrebbero essere proprio gli amanti della lettura, non solo di genere, a difendere se non la qualità intrinseca, almeno il valore commerciale della nuova opera di Dan Brown e pregare il dio dei libri di regalare allo scrittore statunitense ancora tanta salute e tanto successo . Di sicuro, è quello che stanno facendo molti librai, che sanno bene cosa vuol dire potere contare sulla spinta di un fenomeno editoriale per dare ossigeno a un settore che definire boccheggiante sarebbe un attestato di ottimismo immotivato.
Così, quando Amazon dichiara di avere registrato un risultato di prevendita superiore del 24% a quella del precedente Il simbolo perduto e che il semplice annuncio dell’uscita di questo libro ha provocato un aumento delle vendite dell’intero catalogo dei  volumi a firma dell’autore del 340%, forse, se abbiamo davvero a cuore il destino di chi i libri li scrive, li legge o li vende, dovremmo almeno abbozzare e accettare l’idea che, per amore (della lettura) o – più probabilmente - per forza (del marketing), il presente dell’editoria passi anche per un libro come Inferno e per uno scrittore come Dan Brown. Anche perché è bene ricordare che in casi come questi di solito si sviluppa un interesse e un’attenzione nei confronti dell’intero genere letterario nel quale il best seller viene inscritto che ricade sui suoi “vicini” di scaffale, in questo caso gialli storici e thriller basati sulla commistione tra azione e la risoluzione di complicati rompicapo nozionistici : tutte le case editrici approfittano infatti della particolare congiuntura per proporre e riproporre i loro titoli più adiacenti a quello di successo. Qualcuno la chiama una meschina operazione commerciale; noi preferiamo, semmai, definirla la manifestazione di un sano istinto di sopravvivenza.

Detto questo, spariamo pure (metaforicamente parlando, si intende) sull’autore : ne abbiamo tutto il diritto e, probabilmente, anche il dovere.