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domenica 30 giugno 2013

MITI DE WEST: IL DOTTORE CON LA DOPPIETTA


Michele Tetro prosegue nella cavalcata di sangue all’OK Corral con uno dei migliori film del filone.
Frank Perry dirige nel 1971 il western incentrato sul personaggio di Doc Holliday più revisionista tra tutti quelli finora apparsi sul grande schermo. Come “L’ora delle pistole” non ebbe un grande successo, anzi lasciò il suo pubblico con l’amaro in bocca, dato che la riscrittura degli eroi di un tempo è pressoché totale e antipodica a quella offerta in origine dal grande John Ford. 
Spariti completamente il romanticismo, l’aura mitica, addirittura l’ambiguità delle proposte più recenti… “Doc” è un plumbeo ritratto di un Wyatt Earp viscido, intrigante, intrallazzatore, odioso, interessato solo a fare soldi a Tombstone e a tentare l’arrampicata politica. Quasi privo di veri sentimenti positivi, con neppure troppo velate inclinazioni omosessuali verso l’amico Holliday, questo Wyatt nutre rancore e pulsioni vendicative verso Ike Clanton ed i suoi, a seguito di un episodio incentrato su una rapina ad una diligenza che vide entrambi più o meno coinvolti, spingendosi addirittura ad ordine lo scontro finale all’OK Corral come una trappola ai danni dei Clanton, inferiori come volume di fuoco di fronte alla carica degli Earp (pistole contro fucili), avente come conseguenza una vera e propria strage (sette i caduti in questa versione, compreso Morgan Earp). Anche l’attore che lo interpreta, Harris Yulin, è anni luce lontano dall’iconografia che ci saremmo aspettati anche nella più divergente delle “metamorfosi”. Ma “Doc” è un film incentrato principalmente su John Holliday, sul suo rapporto con la prostituta Kate “Big Nose” Elder (Faye Dunaway), comprata proprio dai Clanton alla faccia della veridicità storica, e sulla relazione con l’antico amico Wyatt Earp, di cui non condivide più intenzioni, comportamenti e tendenze.
Stacy Keach interpreta un Holliday minato dalla tisi, stanco della violenza e desideroso solo di un po’ di pace, costretto suo malgrado da Wyatt Earp a partecipare alla sparatoria all’OK Corral, nonostante percepisca nell’amico il passaggio da una posizione ossequiosa della legge ad una semplicemente opportunistica e senza scrupoli, tale da far quasi passare i Clanton per innocenti destinati al massacro. E non equilibra la situazione il “pistolotto” finale di Earp sul corpo del fratello morto, alludente alla nascita di una nuova Tombstone più giusta e civile: per Doc è il segnale di dover abbandonare per sempre l’ex amico e il suo universo corrotto.
Revisionista all’estremo, al punto di diventare ancor più incredibile delle versioni classiche che vorrebbe mettere alla berlina (anche la sparatoria finale perde ogni suo connotato di realtà), “Doc” non ottiene successo di pubblico. Stranamente, c’è da dire, poiché in molti vi hanno scorto tra le righe, e neanche tanto, una evidente metafora della guerra in Vietnam, con gli Earp nel ruolo degli Stati Uniti e i Clanton in quello dei Vietcong, in un periodo in cui tra i giovani erano molto di moda film che si opponevano all’intervento nel Sud-Est asiatico. Ma molto probabilmente le cause del flop sono da imputarsi principalmente in un disegno dei personaggi principali davvero troppo alieno alla tradizione… e anche ai successivi tentativi di riproposta più aderenti alla realtà. Più che antiwestern, “Doc” è un film anti Earp e paga il fio di infangare quella che, nonostante tutto, restava una figura mitica della storia americana.


martedì 25 giugno 2013

ARTI MARZIALI: ADDIO A LIU CHIA LIANG


Licius Estruscus nostro collaboratore, fedelissimo delle arti marziali e del cinema che le riguarda ricorda così il grande maestro d’armi scomparso oggi


Questo è un omaggio triste, di quelli che non si vorrebbe mai scrivere: è il ricordo di un uomo che fu maestro in vita e che, deceduto lo scorso 25 giugno, è ora leggenda.

Gli occidentali piuttosto che Lau Kar Leung hanno spesso preferito chiamarlo Liu Chia-liang, ma in Occidente è arrivato tardi e al di là di un ristretto numero di intenditori non ha mai goduto della fama che invece avrebbe meritato. Molto più famoso sicuramente è sempre stato suo fratello adottivo ed allievo, noto come Gordon Liu: su di lui Liu ha costruito quel capolavoro senza tempo che è La 36ª camera dello Shaolin (1978), che da solo ha smontato e ricostruito un intero genere. Ma sbaglieremmo a pensare che Liu Chia-liang fosse solo un ottimo ed ispirato regista - cosa che comunque fu. Egli è stato la linfa vitale del cinema di Hong Kong, che oggi quindi perde una delle sue colonne portanti.

Aveva 14 anni quando iniziò a lavorare nel cinema, da sempre una delle più prolifiche e remunerative attività di Hong Kong - fra quelle legali! - e al di là di qualche ruolo da comparsa fu subito chiaro il settore in cui Liu eccelleva: l’azione. Per dieci anni il giovane Liu ricoprì una delle mansioni più difficili in quel tipo di cinema: lo stunt coordinator. Continuerà a farlo per il resto della sua vita, ma dopo quei primi dieci anni di gavetta finalmente Liu poté passare anche al livello successivo: attore sì, una mansione sicuramente più remunerativa, ma divenne anche qualcosa che ad Hong Kong ha sempre significato moltissimo. Divenne fight choreographer, o fight instructor che dir si voglia.

Ideare e realizzare combattimenti di arti marziali in un Paese in cui la stragrande maggioranza della popolazione le studia quasi quotidianamente, non è assolutamente facile. Farlo per gli Shaw Brothers, che notoriamente consumavano i propri lavoratori mantenendoli spesso in semi-schiavitù, non è di sicuro facile. Rimanere a galla circondato da una concorrenza spietata e da un esercito di nuove leve che vuole emergere, ancora una volta non è facile. Ma è di questo che è fatta la leggenda: perseveranza e abnegazione. E, sicuramente, una gran dose di talento.

Del fiume di film in cui Liu Chia-liang ha creato coreografie marziali, molto più importanti di quelli in cui ha semplicemente recitato, l’Occidente ne ha conosciuto una sventagliata: l’Italia giusto una pallida ombra. In un periodo in cui le grandi produzioni di qualità venivano distribuite a stretto contatto con i sottoprodotti peggiori, da noi non si fece in tempo a creare il gusto per saper riconoscere la mano del maestro. E quando Sammo Hung lo omaggiò con un combattimento epocale in Pedicab Driver (1989) così come fece Jackie Chan in Drunken Master 2 (1994), ormai la distribuzione aveva chiuso i rubinetti e questo tipo di film non arrivavano più in Italia.

In tempi più recenti la AVO Film ha comprato una piccola parte del catalogo Celestial Pictures, quindi ora si possono gustare molti film con Liu Chia-liang in varie vesti, rimasterizzati e riportati agli antichi fasti. Scelgo di ricordare il maestro di Hong Kong con uno dei suoi film forse meno noti, rispetto ai grandi capolavori della Shaolin Chamber, ma in cui ha potuto dare libero sfogo alla sua creatività, essendone regista, attore e coreografo. Sto parlando di Mad Monkey Kung Fu (da non confondersi con il coevo Monkey Kung Fu), arrivato nel 2010 anche nelle nostre edicole grazie alla collana di DVD Bruce Lee e il grande cinema delle arti marziali. Qui Liu può lanciarsi nelle sue istrioniche acrobazie e dar prova della sua talentuosa marzialità, divertirsi a prendere in giro i canoni del genere e a dimostrare con il sorriso sulle labbra che si può essere leggenda anche imitando le movenze di una scimmia.

Riposa nel Paradiso dei Draghi, maestro Liu.

domenica 23 giugno 2013

SHIRREFFS: LO SCORRIDORE DEL WEST



Di romanzi sul West se ne possono citare a migliaia. Negli anni ’70, quando il genere era ancora vivo grazie alla spinta che gli aveva impresso il revival extraviolento di Sam Peckinpah e alle derive politicamente orientate di pellicole come Soldato Blu e Piccolo grande uomo, nelle edicole italiana si trovavano ancora numerose collane dedicate al genere. Longanesi che nel decennio precedente aveva ospitato nella collana Suspense alcuni romanzi western anche se vi metteva  copertine ammiccanti al noir , proponeva una collana rimasta nel cuore dei collezionisti. I Grandi Western. Romanzi di autori pulp, con belle cover disegnate e immagini cinematografiche che spesso nulla avevano a che fare con il romanzo ma efficaci. Fu proprio tra queste collane che scoprii alcuni dei miei western preferiti. Ne avevo letti in precedenza ma in collane dedicate  ai ragazzi. I romanzi di Zane Grey e di altri, in edizioni illustrate. Alcuni anche molto belli ma per me non esattamente soddisfacenti. Erano romanzi che riproponevano il western americano anni ‘50, con galanti cow boy, cattivi banditi, indiani impennacchiati e una visione manichea e consolatoria del West. Certo, visto che il genere era imperante nelle produzioni per ragazzi , divoravo di tutto ma già il cinema e i fumetti proponevano altro. Storie più adulte  in cui sesso, violenza, una cura peri particolari e una notevole ambiguità sulle ragioni della conquista del West non potevano  non lasciare traccia nella mia immaginazione. Se in Italia Tex restava il termine di paragone più noto, le mie frequentazioni del fumetto francese mi avevano fatto conoscere un west più vicino al mio immaginario. Blueberry, Comanche, quelli mi piacevano davvero.  E così, quasi per caso acquistai una raccolta di romanzi di Gordon D. Shirrefs nella collana i Grandi Western. Capii dalle prime pagine di avere tra le mani storie adulte, intriganti. Vicende di cavalleggeri che parlavano di onore e amore ma anche di violenza, di vendetta, di sesso e crudeltà. Poi c’era una grandissima capacità di rendere il Sudovest americano, la vita dei forti, la ferocia degli Apaches. Shirrefs (1914-1996) cominciò a scrivere negli anni ‘50 produsse per il cinema (Rio Bravo fu appunto tratto da uno dei suoi romanzi ma sceneggiò moltissimo anche Gunsmoke, lo sceriffo di Dodge City). Più di ottanta romanzi solo per il ciclo del west. Moltissime storie di cavalleria, ricche di dettagli e di intrecci complessi ma anche vicende di pistoleri e banditi. Ho riletto recentemente con grande piacere Le fanfare della vendetta che fu il suo primo romanzo che  trovai. Ancora oggi le descrizioni sono accurate ben rese (purtroppo la collana fu chiusa e passò per un certo periodo a un altro editore che evidentemente non era in grado di selezionare i traduttori, alcuni romanzi dell’epoca dello stesso autore risultano quasi illeggibili malgrado le belle copertine di Ticci) molto cinematografiche. Ed è proprio questo romanzo che voglio proporvi, una storia che si prende parecchie licenze sulla vera vicenda della guerra con gli Apaches. Poco importa, la banda del Carnicero e il suo misterioso uomo della medicina, il Profeta, del capitano Holt Downey che cerca a tutti i costi la vendetta anche a costo di travolgere durante una carica il figlio del suo odioso superiore è ancora appassionante. Ci sono sergenti disposti a fare a pugni coi superiori se questi rinunciano ai privilegi del grado, scout ubriaconi o infidi, fanciulle dell’Est e ragazze facili dell’ovest, agguati, inseguimenti e un catartico finale. Tutto in meno di duecento pagine condotte con senso del ritmo e dell’avventura. Davvero un peccato che anche negli Usa questa produzione sia ormai scomparsa. Restano solo gli ultimi romanzi di Robert B. Parker (dei quali il primo, Appaloosa, è stato portato sullo schermo) ma son cose differenti. È finita, per il momento, l’epoca del western narrato sulla pagina. Per chi volesse ritrovare questa magia consiglio una ricerca nei mercatini e nelle bancarelle oppure su internet, in inglese gran parte dei romanzi di Shirrefs sono ancora disponibili.

lunedì 17 giugno 2013

BELGIO IL REGNO DEL FUMETTO: LA MOSTRA



La mostra “Belgio, il Regno del Fumetto” suggella l’importante gemellaggio tra WOW Spazio Fumetto – Museo del Fumetto, dell’Illustrazione e dell’Immagine animata di Milano e il Centre Belge de la Bande Dessinée di Bruxelles, due importanti istituzioni europee che sorgono in due capitali del fumetto mondiale e che per la prima volta si stringono la mano testimoniando una collaborazione che non mancherà di dare ottimi frutti! La mostra è organizzata con la collaborazione di Turismo Fiandre, Bruxelles, Belgio, ente per la promozione del turismo delle Fiandre. 

Famoso per la cioccolata, la birra e la genialità dei suoi pittori, dai raffinati Fiamminghi all’estroso Magritte, il Belgio detiene un primato assai curioso ignoto ai più: con una superficie pari a un decimo di quella italiana è il paese con la più alta densità di fumettisti per chilometro quadrato! Ciò non deve stupire se pensiamo che in questo piccolo regno europeo sono nati e hanno operato alcuni tra i più i più grandi fumettisti del panorama internazionale, creatori di personaggi immortali su testate di gra/nde avanguardia: da Lucky Luke ai Puffi, da Tintin a Buck Danny, da Barbarossa a Spirou e Fantasio, da Blueberry a Luc Orient e Blake e Mortimer, solo per citarne alcuni. La mostra “Belgio, il Regno del Fumetto” ci racconta tutto questo attraverso un percorso cronologico che parte dalla rivista Le petit Vingtième, sulle cui pagine nel 1929 nasce Tintin, il simpatico e intrepido ragazzino fotoreporter dal ciuffo rosso che gira il mondo alla ricerca di avventure con la sua macchina fotografica e il cagnolino Milou, personaggio tra i più amati e longevi della storia del fumetto ultimamente portato con successo sul grande schermo da Spielberg.



Un regno incontrastato fino al 1938, quando nasce Spirou, simpatico facchino biondo anch'esso giramondo e avventuriero. Ai due personaggi vengono dedicate le più importanti riviste a fumetti del Paese, sempre in competizione per lanciare nuovi personaggi e autori come Peyo (nome d’arte di Pierre Culliford), lo storico creatore dei Puffi. 
Un fermento culturale in cui vengono alla luce personaggi come i detective dell'impossibile Blake e Mortimer (1946) di Edgar P. Jacobs, il redattore combinaguai Gaston Lagaffe (1957) e il simpatico animaletto maculato Marsupilami (1952) di André Franquin, gli aviatori Buck Danny (1947) e Dan Cooper (1954), nati uno in concorrenza all'altro sulle due riviste Tintin e Spirou, il cagnone Cubitus (1968) e molti altri. 


 

Tra tutti spiccano di certo per fama e notorietà il cowboy Lucky Luke (1946), ideato da Morris e scritto da grandi autori come René Goscinny (lo stesso di Asterix) e il romanziere Daniel Pennac, e i Puffi, gli omini blu di Peyo che, introdotti come comprimari in una storia di Rolando e Pirulì nel 1958, diventano i personaggi belgi più celebri del mondo, protagonisti di film e serie animate. Tra le chicche esposte in mostra alcuni disegni originali della serie animata dei Puffi firmati Hanna & Barbera.
Non esiste un genere predominante nel fumetto belga: la ricchezza di autori ha permesso di creare storie di pirati (Barbarossa, 1959), cavalieri (Il Cavaliere Ardente, 1966), cowboy (Blueberry, 1963), spie (XIII, 1984), birrai (I maestri dell'orzo, 1992), e perfino tassisti (Strapuntino, 1958) e agenti del fisco (IR$, 1999). E anche in Belgio rifulge l'eccellenza italiana con Dino Attanasio, autore italiano naturalizzato belga, creatore del Signor Spaghetti (1957), pubblicato a lungo su Tintin.
Questo straordinario percorso viene illustrato dalla mostra grazie all’esposizione di tavole originali, pubblicazioni d’epoca, francobolli, figurine, pupazzi, gadgets, edizioni belghe e italiane e video.  Grazie alla collaborazione tra WOW Spazio Fumetto di Milano e Centre Belge de la Bande Dessinée di Bruxelles saranno esposte tavole originali di importanti autori.

sabato 15 giugno 2013

MITI DEL WEST: L'ORA DELLE PISTOLE



Michele Tetro continua la sua ideale cavalcata tra i film dedicati alla sfida all’OK Corral questa volta ci parla di "L'ora delle pistole" ancora di John Sturges.

Dopo dieci anni dalla realizzazione di “Sfida all’OK Corral”, nel 1967 il regista John Sturges torna ad occuparsi dello storico evento tombstoniano del 26 ottobre 1881, lasciato ancora nella sua aura mitica, dove i completamente buoni fratelli Earp, aiutati da Doc Holliday, sgominarono i cattivi fratelli Clanton-McLowery. Erano già fioccate sul precedente film numerose accuse di falso storico e di varie inaccuratezze che evidentemente indussero Sturges a riprendere la storia là ove si era conclusa per narrare tutto ciò che seguì la sparatoria, con occhio più attento alla gestione dei personaggi e al loro ritratto psicologico… ma ancora una volta, nonostante i flani dei cartelloni affermassero il contrario, ben poco aderente alla realtà dei fatti.

 “L’ora delle pistole” (“The Hour of the Gun”, noto in Italia con il titolo alternativo di “Vendetta all’OK Corral”) appare più come uno studio, anche piuttosto malinconico e decisamente crepuscolare, di personaggi che un western all-action. Lodevole iniziativa, che si apre con la migliore delle previsioni: la sfida all’OK Corral riproposta in modo molto aderente al vero, con una fedele rapidità di esecuzione e il giusto numero di vittime a terra. Certo, al posto del monolitico Burt Lancaster nel ruolo di Wyatt Earp abbiamo un altrettanto granitico James Garner, baffuto al punto giusto (l’attore riprenderà ancora la parte di Earp in “Intrigo a Hollywood”, commedia ambientata negli anni Venti), e in quello di Doc Holliday troviamo un forse troppo anziano Jason Robards, ma l’alchimia di coppia sembra funzionare bene anche in questo caso. Il film narra come, dopo il fallimentare processo intentato da Ike Clanton, che in questa riduzione cinematografica sopravvive, come era giusto che fosse, alla sparatoria e vuole gli Earp condannati come assassini, Wyatt e i suoi fratelli, assolti in tribunale, siano presi di mira dagli sgherri del feroce landlord, ben interpretato da Robert Ryan (anche se questa versione di Clanton in veste di business-man dalle mille strategie di vendetta poco si raccorda col vero Ike, che era più un rozzo mandriano e ladro di bestiame).

Con Virgil storpiato a vita e Morgan fatto fuori con un colpo alle spalle, Wyatt abbandona la sua cieca fede nella giustizia per lasciarsi trasportare da un freddo istinto di feroce vendetta, un’ossessione di morte che lo spinge a mettere insieme una banda di fedelissimi alla ricerca degli assassini dei fratelli, giustiziati tutti senza pietà. E’ la storica Earp Vendetta Ride, che Sturges adatta non troppo fedelmente, sottolineando come sia la “posse” di Earp che quella di Clanton agissero nel rispetto delle leggi di stati differenti (Arizona e New Mexico) ma spingendo marcatamente sulla progressiva perdita di integrità di Wyatt, sulla disintegrazione dell’uomo di legge a favore del killer giustiziere. Ed è l’alcolizzato Holliday, stavolta, a cercare di riportare l’amico nei ranghi, diffidandolo dal comportarsi come in realtà si sarebbe comportato lui stesso. Siamo già deragliati molto dalla realtà dei fatti e Wyatt porterà a termine la sua crociata uccidendo Clanton in uno scontro a fuoco finale (quando invece il vero Ike non avrà più a che fare con gli Earp fino alla sua morte, avvenuta anni dopo durante una rapina).

La pellicola è uno degli adattamenti meno noti dei fatti riguardanti Wyatt Earp e ciò è tanto più strano considerando che oggi è rivalutata come opera forse addirittura migliore dell’illustre predecessore (a detta di molti sopravvalutato), sia per quanto concerne l’interpretazione che il risultato complessivo, fatta salva, ovviamente, l’inattendibilità storica che presto prende il sopravvento. L’atmosfera generale è cupa, gli eroi non sono più eroi, non c’è spazio alcuno per vicende sentimentali e men che meno per donne in qualsiasi ruolo, vera protagonista del film è quell’ambiguità non risolta tra confini della legge ben marcati e libero arbitrio personale, tra figure un tempo eroiche ed ora mutate nella sembianza di coloro contro i quali agivano spinti da un incontrovertibile senso di giustizia. In quest’accezione, “L’ora delle pistole” assurge a pellicola davvero emblematica del western crepuscolare… al pari della seguente “Doc”.