Sono
un narratore. Da sempre.
Non
scrittore, parola che evoca ambizioni d'auteur, critici paludati e
recensioni, premi letterari e tutto un universo estraneo alla mia passione.
Questa, benché compulsiva e precoce, ha sempre avuto la sua sorgente nella
fantasia, nel racconto di vicende, avventure, in parte vere e in parte sognate.
Narratore,
quindi. Un cantastorie, se volete, vicino ai suoi personaggi e alle loro
peripezie ma distante quel che basta per non confondersi con loro.
Pallido,
mentre loro s’abbronzano al sole delle passioni.
È
ciò che ho sempre desiderato essere e che sarò sino alla fine.
Vocazione
familiare?
Non
lo so. Nonno Mario, di Bologna, era uno scultore. Nonno Giu, del ramo genovese
della famiglia, era, come si diceva un tempo, “maestro di musica”.
Mai
saputo disegnare e quanto alla musica… be’, manco a tenere il tempo ero capace.
Creare,
forse, è un pane che ho mangiato la mattina con il latte sin da piccolo.
Chissà…
Non
ricordo un periodo della mia vita in cui non ho pensato a una storia da
raccontare.
Una
passione giovanile alimentata dalla lettura di ogni libro mi capitasse a tiro,
da centinaia di film visti e rivisti, avventure rivissute con la fantasia nei
giorni successivi, persino in lunghe divagazioni a occhi aperti.
“Mamma,
posso parlare da solo?” chiedevo. E di fronte a perplesse rassicurazioni dei
miei genitori che mi era consentito di tutto purché non dessi fastidio, sui
sentieri di montagna cominciavo a narrare per un pubblico che esisteva solo
dentro di me.
Una
platea esigente, attenta ma inflessibile. Richiedeva sempre nuove emozioni,
peripezie, intrecci…
Non
vita vissuta, perché raccontare un’avventura invoca sempre il ricorso alla
fantasia. Questa è una forza che trasforma, distorce, ci aiuta a materializzare
un mondo, a volte selvaggio, ma sostenuto da un ordine, assente ahimé, nella
vita vera.
E
la straripante necessità di inanellare una vicenda all’altra si sviluppava assieme alla convinzione che quell’universo
di misteri e di ardimenti andasse ricercato e un po’ sperimentato.Così gli sport da combattimento, la vela, le
ascensioni in roccia ma anche i viaggi, la passione per la fotografia, la
curiosità per luoghi e persone distanti dalla mia quotidianità sono entrati a
far parte della mia formazione di narratore. Tutto
sempre, rigorosamente, filtrato dall’immaginazione.
Nelle
mie scorribande alla ricerca di leggende e fatti strani mi avventurai,
ovviamente, anche nella storia della mia famiglia. Fu una volta, al ritorno da
una forsennata battaglia tra Tigrotti e Siphay avvenuta nella cornice - per la
verità non troppo esotica - di una rotonda sul porto di Genova, che sentii
parlare di un mio progenitore.
Si
chiamava come me, Stefano Di Marino, e già questo mi colpì. Era vissuto a
cavallo della metà del diciannovesimo secolo, ma nessuno ne parlava volentieri.
Molti
negavano persino di averne mai udito il nome, altri borbottavano qualcosa. Una
zia suora al solo sentirlo nominare agitava la mano di fronte a sé producendo
uno strano verso con le labbra. Forse un anatema.
La
fantasia s’accese e all’incauto zio che aveva menzionato il misterioso avo
strappai scarni ma intriganti brandelli di notizie.
Si
diceva che questo Stefano Di Marino fosse stato un poco di buono, un
contrabbandiere, uno che frequentava donne di malaffare e bazzicava certi
localacci del porto. S’era guadagnato il soprannome di “La Pistola”, bravata di
cui andava fiero.
Giravano anche altre voci, ma nulla di sicuro.
Una donna, il coinvolgimento politico con i moti del ‘48… Di più non si sapeva,
a parte il fatto che, dall’Italia, se n’era dovuto andare, braccato da sicari
austriaci.
Prima
si era rifugiato in America, poi erano giunte sue notizie dall’Estremo Oriente.
Siccome
l’inglese doveva averlo masticato poco e male, s’era scelto un nuovo nome, ma
aveva commesso un errore. Così Stefano Di Marino, detto “La Pistola” era diventato Stephen Gunn.
Quella
“n” in più me lo rese ancor più simpatico. Aggiungeva al personaggio quel poco
di spavalda cialtroneria che s’adattava all’immagine che me n’ero fatto.
E
poi Ben Gunn era il marinaio abbandonato dai pirati sull’isola deserta, uno dei
miei eroi di sempre.
Rimase
in un luogo segreto della mente, con tanti altri spunti in attesa di
riemergere. Nel frattempo avevo realizzato il mio sogno.
Ero diventato un narratore professionista
Quando un editore mi chiese di creare un eroe
per una serie d’avventure spionistiche ma di firmarlo con uno pseudonimo
“americano”, ripescai dal Baule delle Emozioni a Riposo quel nome ardimentoso.
Oggi
i romanzi di Stephen Gunn hanno quasi superato i venti anni di vita. La serie
principale conta più di ventisette episodi e il mio personaggio fa capolino
anche in una collana di eleganti ristampe.
Di tutti i miei lavori è forse quello di cui
vado più fiero.
Ma
il tempo trascorre, non si ferma. Il ramo genovese della mia famiglia si è
praticamente estinto. Qualche tempo fa l’agente immobiliare cui avevo affidato
la questione mi avvertì che la vecchia casa di via Rivoli, poco distante da
quella gloriosa rotonda, era stata venduta. A me toccava un ultimo sopralluogo
per sgombrare l’abitazione da mobilio e vecchie carte di nessun valore per i
nuovi proprietari.
Una
strana emozione. Tornare in quell’appartamento fuori moda, un po’ buio, che
negli anni avevo visitato senza più grande attenzione. Ora, in quell’ultima notte,
fui assalito da un’inarginabile ondata di ricordi.
Il pianoforte con cui il Nonno impartiva
lezioni, la centenaria poltrona imbottita di cuoio, tutta squarciata ma che -
in epoche per me lontanissime e vicine al tempo stesso - era stata cavallo,
bastione, trincea.
Persino
il vetusto orologio a pendolo, muto oramai, rievocava emozioni, paure di quando
mi nascondevo sotto le coperte perché, di notte, venivano le streghe…
Ma le ombre,
le avventure terribili e meravigliose, io le avevo viste davvero.
Così,
incapace di dormire, cominciai a rovistare tra i cassetti. Ammassavo vecchi
spartiti di musica, raccolte impolverate della Domenica del Corriere,
della Settimana Enigmistica, edizioni Salgariane illustriate, racconti
della Primula Rossa… persino una decina di numeri di un fumetto western
che non poteva esser stato altro che mio.
E in fondo a tutto…
Vecchi quaderni, di grande formato, simili a
registri di bordo. Una scrittura incerta che mescolava italiano e un inglese
poco corretto.
Frasi
arcaiche, ma nomi conosciuti. Almeno per me. A-Magau… Melaka, le isole Banda,
paradiso delle spezie…E un nome ricorrente.
Orchidea Rossa.
Preso da una frenesia spostai il malloppo su
un tavolo, accesi la luce, infilai gli occhiali.
Ci
voleva un sigaro e un bicchiere di vodka. Avevo trovato il mio tesoro. Sì,
proprio il diario di Stephen Gunn, il racconto di un’avventura. Forse vero,
forse condito con molte fantasie.
Alla
fine quello scellerato che frequentava i porti e sfoderava la pistola con tanta
facilità aveva sentito la necessità di affidare a qualcuno - una donna
immaginai, spiccando un balzo d’irrefrenabile
fantasia- i suoi ricordi. La sua era una storia da non dimenticare.
Cominciai a leggere con un nodo in gola. Perché avevo trovato il messaggio
nella bottiglia di quel naufrago di cento tempeste e il suo tesoro stava per
diventare mio…Giurai a me stesso di farne buon uso.
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